Le emozioni studiate in modo nuovo e un cambiamento per la psichiatria

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 05 marzo 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La vita psichica senza emozioni è difficile da immaginare, perché una coloritura emozionale, anche se lieve, sfumata o inapparente alla coscienza, è quasi costantemente presente nella vita di relazione e può anche emergere nelle pause di isolamento, concentrazione e riflessione, con i contenuti del pensiero. La qualità di un sentimento e la gamma tonale dei nostri affetti possono essere rivelati da un’emozione.

È vero che, storicamente, la psichiatria ha ricondotto e spesso ridotto le emozioni a sintomi, giungendo con Freud a definire lo stato mentale pervaso dall’emotività dell’innamoramento quale “prototipo della psicosi”. Ma è pur vero che gli studi di neurofisiologia delle reazioni emozionali, sollecitati dalle osservazioni sull’uomo normale e patologico, hanno fornito uno straordinario contributo alla psicologia, inducendola ad assumere i concetti e perfino il lessico emergente dall’esperienza sperimentale. Tuttavia, dopo i grandi progressi compiuti durante il secolo appena trascorso, a cominciare dagli studi di Cannon e Selye fino alle basi della motivazione[1] e agli studi più recenti di LeDoux sull’amigdala nella paura, in un certo senso si è segnato il passo o, seppure si è proceduto, non vi sono stati eventi di grande rilievo nelle acquisizioni derivate dall’indagine sperimentale. Una ragione di questo è insita nella difficoltà di studiare scientificamente le emozioni: esaurita l’identificazione delle basi neurobiologiche delle reazioni emozionali elementari, presenti in tutti i mammiferi studiati, si è tornati al problema irrisolto della natura stessa delle emozioni, quali esperienze e vissuti soggettivi collegati ad uno stato psico-fisico[2].

Rimane, dunque, il problema di oggettivare il vissuto emozionale in un fenomeno misurabile, almeno nei termini della base neurale correlata all’esperienza soggettiva.

Kepecs e Mensh, rispettivamente del Cold Spring Harbor Laboratory e del Janelia Research Campus, hanno tentato questa impresa applicando recenti acquisizioni della neuroscienza dei sistemi allo studio delle emozioni. La principale novità consiste nell’ipotesi formulata dai due ricercatori, secondo cui le emozioni sarebbero il prodotto di processi con un preciso ruolo effettore, consistente nella redistribuzione corporea delle risorse energetiche dell’organismo. Lo studio, veramente interessante, mostra che la nuova prospettiva potrebbe incidere sui criteri nosologici attualmente adottati in psichiatria (Kepesc A. & Mensh B. D., Emotor control: computations underlying bodily resource allocation, emotions, and confidence. Dialogues in Clinical Neuroscience 17 (4): 391-401, Dec. 2015).

La provenienza degli autori è la seguente: Cold Spring Harbor Laboratory, Cold Spring Harbor, New York (USA); Janelia Research Campus, Howard Hughes Medical Institute, Ashburn, Virginia (USA).

In effetti, Kepesc e Mensh hanno esplorato in una prospettiva computazionale il rapporto fra stati affettivi soggettivi (feelings) e circuiti cerebrali che si ritiene li producano. I due ricercatori hanno applicato recenti conoscenze acquisite dalla neuroscienza dei sistemi per studiare le emozioni; in particolare, hanno impiegato il criterio di considerare il comportamento soggettivo come risultato di computazioni mentali rappresentate nel cervello. Ma, soprattutto, hanno sviluppato le loro riflessioni sul lavoro condotto in questo campo anche da altri gruppi di ricerca, prendendo le mosse da un’affascinante ipotesi di lavoro: le emozioni sarebbero il prodotto di complesse elaborazioni neurali di informazioni provenienti dalla periferia viscerale e somatica, il cui ruolo motorio consisterebbe nella ricollocazione nei vari distretti corporei delle risorse dell’organismo prevalentemente distribuite dall’azione della muscolatura liscia intrinseca degli organi cavi, e segnatamente dei vasi sanguigni. Kepesc e Mensh chiamano questo controllo effettore esercitato dalle emozioni emotor control (controllo emotivo-motorio). Tale sistema di controllo emotor sarebbe analogo al più familiare sistema di computazioni del controllo motorio che coordina i movimenti della muscolatura scheletrica o striata.

Per cercare una verifica a questo quadro interpretativo, i ricercatori hanno fatto riferimento alla ricerca recente sulla confidence[3]. Sebbene sia più familiare nel valore semantico esprimente fiducia e certezza nei propri mezzi o affidabilità di persone e circostanze, la confidence è anche una quantità statistica oggettiva: una stima della probabilità che un’ipotesi sia corretta.

L’approccio “basato su un modello” adottato da Kepesc e Mensh, per il cui dettaglio si rinvia alla lettura dell’articolo originale, ha contribuito a rivelare le basi neurali della confidence relativa alle decisioni nei mammiferi, ed ha fornito un ponte verso il sentimento soggettivo umano.

I risultati dello studio hanno implicazioni notevoli per la psichiatria, perché numerosi disturbi psichiatrici presentano alterazioni dei processi di computazione alla base della confidence. Tale osservazione induce Kepesc e Mensh ad osservare che questo approccio computazionale allo studio delle emozioni è in linea con una tesi molto accreditata secondo cui la nosologia psichiatrica potrebbe essere meglio parametrizzata in termini di disturbi delle computazioni cognitive sottostanti comportamenti complessi.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-05 marzo 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Il termine stesso motivazione, oggi imprescindibile nel linguaggio psicologico e comune, deriva da una traduzione “ad orecchio” del vocabolo inglese motivation, inizialmente introdotto dai neurofisiologi per indicare lo stato neurofunzionale che incentiva emotivamente all’azione finalizzata. La resa in italiano è fuorviante, perché il nostro motivazione fa riferimento ad un motivo, ad una ragione per cui un evento si è verificato, mentre l’inglese motivation viene da motive, che indica un impulso interno, quale un bisogno o un desiderio, che muove all’azione, che spinge ad agire. La motivation non è la ragione che interpreta perché si è fatto qualcosa, ma lo stato fisiologico di propensione ad agire del cervello animale che, se va fuori controllo per patologia o sostanze psicotrope, determina compulsione.

[2] I contenuti proposti in questa discussione derivano in gran parte da una recente conversazione con il presidente della nostra società scientifica.

[3] Il termine, riportato dagli stessi autori fra virgolette, non è tradotto perché deve essere inteso nel significato correntemente attribuito al vocabolo inglese dalla ricerca psicologica.